Tumore alla vescica e fumo, c’è un legame strettissimo

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Il 65% dei casi di tumore della vescica negli uomini è correlato all’abuso di fumo di sigaretta

Cercate una ragione per smettere di fumare? Ce ne sono un migliaio, ma oggi ne aggiungiamo un’altra: il tumore alla vescica. Il 65% dei casi di tumore della vescica negli uomini è correlato all’abuso di fumo di sigaretta.

L’incidenza della malattia nel nostro paese è in lieve aumento: dal 2030 si attendono più di 35 mila nuovi casi ogni anno. Si tratta del quarto tumore più frequente nei maschi e dell’undicesimo nelle donne.

Sono i dati emersi in un incontro dedicato a questa neoplasia e organizzato dalla Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO).

“Le differenze di genere in questa patologia sono abbastanza evidenti – ha spiegato all’Ansa Renzo Colombo, urologo e Coordinatore di Area Uro-Oncologica dell’Ospedale San Raffaele di Milano -. Ogni anno in Italia si ammalano 21.000 uomini e 5.000 donne. Tuttavia, rispetto al passato, mentre oggi l’incidenza di questa malattia negli uomini è in riduzione, nelle donne risulta in sensibile aumento”. Il fumatore, prosegue l’esperto, ha un rischio di sviluppare la malattia che è quasi cinque volte superiore rispetto ad un non tabagista. Il vizio, storicamente quasi esclusivamente maschile, è negli ultimi anni in deciso aumento tra le donne italiane e questo può spiegare l’aumento dei casi femminili.

Per questo bisogna abbandonare quanto prima il fumo: smettere riduce significativamente il rischio. Anche se sarebbe meglio non iniziare mai a fumare dato che anche dopo 20 anni dalla sospensione il rischio rimane comunque superiore a quello di coloro che non hanno mai fumato.

Ci sono diverse terapie contro il tumore della vescica: dalla chemioterapia alle nuove prospettive aperte con l’immunoterapia, dalla chirurgia personalizzata alla radioterapia. “L’immunoterapia con l’utilizzo degli anticorpi monoclonali – aggiunge Andrea Necchi, Dirigente medico del Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto nazionale tumori di Milano – che hanno come bersaglio il PD-1 o PD-L1 (due proteine in grado di influenzare la risposta immunitaria) ha dimostrato nell’arco dello scorso anno di potere cambiare la storia del trattamento dei pazienti con malattia avanzata”.

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